Omelia Don Carlo 3 febbraio 2020
Omelia 03 febbraio 2020
L’indemoniato guarito “lo supplicava di restar con Lui”.
Gli sembra il massimo star sempre con Gesù. Cosa c’è di più bello, di più desiderabile?
E, invece, no. Gesù lo spiazza, lo sconcerta.
“Non glielo permise” di star con lui perché glielo vede in faccia che “stare” come diceva lui era: “Sto qui, sto tranquillo, non devo fare nient’altro che stare”, ma “stare” è un verbo che suggerisce inerzia, è l’assenza di forza – un campo statico; indica passività, disimpegno, delega a qualcun altro, delega a Gesù, no!
Io ti voglio protagonista della tua realizzazione umana. Le cose le fa Dio e son fatte così, han le loro leggi fisiche. Gli uomini si devono “far da sè”, Dio ci mette il lievito iniziale, poi tu ti devi “auto-creare”: devi decidere che cosa di grande vuoi diventare nel mondo. Dio sta a vedere che spettacolo viene fuori o come ti perdi.
“Io non voglio gente che “sta” con Me” – dice Gesù – “ma gente che “imita” Me, fa quel che faccio Io! Io non sono stato con Dio, son venuto giù dentro il mondo, dentro la bagarre con voi, (son venuto) a svolgere il mio compito di uomo dentro il mondo. Tu, adesso, devi svolgere il tuo!”.
Qual è il compito di quell’indemoniato guarito?
Gesù è chiarissimo: “Va’ dai tuoi, annuncia ciò che il Signore ti ha fatto”. Il nostro compito è questo: non è stare sempre con Gesù, ma annunciare nel tempo, dentro il mondo ciò che Dio fa per noi, come sta cambiando la nostra vita, come mi sta realizzando. E questo compito io non lo realizzo “stando” sempre con Gesù a parte, sempre “rintanato” dentro la sua comunità, ma fuori (!), come dice audacemente questo Papa che spiazza tutti: “Voglio una chiesa in uscita”. Fuori, fuori! Dentro le periferie esistenziali.
Quando noi ci sentiamo infelici, non realizzati, diciamo: “devo pregare di più, devo star di più con Gesù”. È il contrario: ci devi star di meno! È come uno che se sta sempre a tavola, poi gli viene lo schifo del cibo, non ne capisce più la bellezza. Per capire il cibo, che Gesù è il pane della vita, bisogna lasciare la tavola e andare a lavorare e faticare, a provar la fame, a star con chi Gesù non Lo conosce.
Negli ultimi dieci, dodici anni della mia vita l’entusiasmo più grande che mi è venuto per Gesù è proprio per questo. Quando ho cominciato ad intercettare e a condividere le ferite di tanti, mi si è capovolto quel che mi avevano insegnato sul rapporto tra educazione e missione. Mi avevan detto: “Prima ti devi educare, educare la gente, dopodiché, poi – quando saranno pronti e adeguati – andranno in missione. Io ho scoperto esattamente che è vero il contrario.
Il miglior modo per educarsi è andar subito in missione, buttarsi dentro la bagarre: è lì che capisci, con chi riconosce Cristo, che cos’è veramente Cristo.
Lo capisci, come in un teorema per assurdo, che non si può vivere così. Poi si incontrano tante di quelle anime ferite che non staranno mai dentro gli standard comunitari che abbiamo in testa noi: gente a cui puoi far solo compagnia là dentro il loro dramma o sulla loro croce.