Archive

Omelia Don Carlo 12 gennaio 2020

Omelia 12 gennaio 2020

“Gesù venne da Giovanni per farsi battezzare”.

Il battesimo di Gesù non è un rito, come per noi; è l’incontro che Gli cambia la vita a trent’anni! Termina in quel momento la Sua vita privata e inizia la vita pubblica. Prima di quel momento il Suo dolore era solo il Suo, la gioia era la Sua gioia; adesso la vita di tutti è diventata la Sua vita. Prima aveva o la gioia o il dolore, come tutti noi: o piangi o ridi. Adesso ha sempre nel cuore e in faccia felicità e dolore insieme, perché Gesù da quel momento non è felice se un solo uomo al mondo è infelice. Le lacrime fanno parte del Suo sorriso, ma non sono mai lacrime amare, pungenti, velenose. Il tono delle Sue parole non ferisce mai, in Lui non c’è più l’aut-aut, ma sempre l’et-et, c’è sempre l’abbraccio.
È – perdonate le “parabole” informatiche – come uno che è abituato ai primi computer, i Pentium 1, i Pentium 2, che quando ci potevi mettere uno slot di 512 Kb di memoria sembrava di andare in paradiso. Come se un computer così, di schianto, viene portato alla RAM di un terabyte del Cineca – Zac (!) e parte prima ancora che tu lo tocchi! – che supporta una quantità di dati impossibile. Ecco il cuore di Gesù sopporta gli impossibili dati del mondo, l’umanità intera. C’è posto per tutti.
Ma prima dei trent’anni non era così Gesù: si è fatto il suo lavoro, nessuno ne sapeva nulla. Ci stava un po’ stretto, a dodici anni, col babbo e la mamma, li ha mandati a quel paese per tre giorni e poi ha detto loro: “Ma perché mi cercate? Ma non capite che ho un altro Padre e un’altra Madre e che voi non mi capite?”. Poi è tornato a casa, tra l’altro li ha visti in faccia che non potevano mica capire…

Come è che Gesù cambia? Cosa è che porta la RAM ad un terabyte? Ad un’espressione impossibile? Cosa scopre al Giordano quando va là davanti al profeta a gridare come tutti che venisse il Mistero nel mondo? Che venisse il Messia? Cosa sente? Sente in quella voce che gli dice. “Questo è il mio figlio, l’amato”. L’ἀγαπητός (agapētós), l’amato, il mio compiacimento, questo è quello che mi piace di più al mondo, che quando lo vedo faccio “I like!”. È la preferenza di Dio su di lui, che è l’opposto delle preferenze umane. Non lo capiva un mio carissimo amico, potente cristiano di Nazareth. “Io non capisco perché Dio dice che preferisce il popolo eletto. Perché non sono figlio di Dio anche io?
“Perché deve preferire quegli antipatici degli Ebrei che mi fan tanti danni?!”, diceva lui. Non capiva perché aveva in testa – questo mio carissimo amico – l’idea naturale di preferenza come esclusiva, discriminatoria. Perché quelle naturali sono così; pensate all’innamoramento: implica per natura la gelosia – cosa facciamo le coppie aperte?
Le preferenze naturali sono sempre esclusive, taglian sempre via qualcuno, anzi la maggior parte. Invece, quella di Cristo, quella di Dio su Gesù, quella di Dio su di me, quella di Dio sul popolo Ebraico, è il contrario: non è una preferenza che chiude, ma che include, è inclusiva, non implica più la gelosia, ti spinge alla missione, perché ti riempie, è totale, le altre sono imperfette, è per quello che devono proteggersi. Quella di Dio ti riempie e basta. E tu sei così felice di essere il preferito, che senti che devi spendere la vita per andare a preferire i non preferiti, ma non per possederli, per “integrali nel tuo sistema”, nella tua religione! Non te li porti con te, non li trattieni, ma li lanci, li spingi a loro volta a preferire tutti. Perché li vuoi liberi, non sopporti più dei discepoli, vuoi solo dei figli liberi.
È così raro tra noi, è così raro trovare nella Chiesa, nelle nostre comunità, questo respiro, questo fremito, questa – ecco – purità di affezione.

Omelia Papa Francesco 25 dicembre 2019

«Su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is 9,1). Questa profezia della prima Lettura si è realizzata nel Vangelo: infatti, mentre i pastori vegliavano di notte nelle loro terre, «la gloria del Signore li avvolse di luce» (Lc 2,9). Nella notte della terra è apparsa una luce dal cielo. Che cosa significa questa luce apparsa nell’oscurità? Ce lo suggerisce l’Apostolo Paolo, che ci ha detto: «È apparsa la grazia di Dio». La grazia di Dio, che «porta salvezza a tutti gli uomini» (Tt 2,11), stanotte ha avvolto il mondo. Ma che cos’è questa grazia? È l’amore divino, l’amore che trasforma la vita, rinnova la storia, libera dal male, infonde pace e gioia. Stanotte l’amore di Dio si è mostrato a noi: è Gesù. In Gesù l’Altissimo si è fatto piccolo, per essere amato da noi. In Gesù Dio si è fatto Bambino, per lasciarsi abbracciare da noi. Ma, possiamo ancora chiederci, perché San Paolo chiama la venuta nel mondo di Dio “grazia”? Per dirci che è completamente gratuita. Mentre qui in terra tutto pare rispondere alla logica del dare per avere, Dio arriva gratis. Il suo amore non è negoziabile: non abbiamo fatto nulla per meritarlo e non potremo mai ricompensarlo.
È apparsa la grazia di Dio. Stanotte ci rendiamo conto che, mentre non eravamo all’altezza, Egli si è fatto per noi piccolezza; mentre andavamo per i fatti nostri, Egli è venuto tra noi. Natale ci ricorda che Dio continua ad amare ogni uomo, anche il peggiore. A me, a te, a ciascuno di noi oggi dice: “Ti amo e ti amerò sempre, sei prezioso ai miei occhi”. Dio non ti ama perché pensi giusto e ti comporti bene; ti ama e basta. Il suo amore è incondizionato, non dipende da te. Puoi avere idee sbagliate, puoi averne combinate di tutti i colori, ma il Signore non rinuncia a volerti bene. Quante volte pensiamo che Dio è buono se noi siamo buoni e che ci castiga se siamo cattivi. Non è così. Nei nostri peccati continua ad amarci. Il suo amore non cambia, non è permaloso; è fedele, è paziente. Ecco il dono che troviamo a Natale: scopriamo con stupore che il Signore è tutta la gratuità possibile, tutta la tenerezza possibile. La sua gloria non ci abbaglia, la sua presenza non ci spaventa. Nasce povero di tutto, per conquistarci con la ricchezza del suo amore.
È apparsa la grazia di Dio. Grazia è sinonimo di bellezza. Stanotte, nella bellezza dell’amore di Dio, riscopriamo pure la nostra bellezza, perché siamo gli amati di Dio. Nel bene e nel male, nella salute e nella malattia, felici o tristi, ai suoi occhi appariamo belli: non per quel che facciamo, ma per quello che siamo. C’è in noi una bellezza indelebile, intangibile, una bellezza insopprimibile che è il nucleo del nostro essere. Oggi Dio ce lo ricorda, prendendo con amore la nostra umanità e facendola sua, “sposandola” per sempre.
Davvero la «grande gioia» annunciata stanotte ai pastori è «di tutto il popolo». In quei pastori, che non erano certo dei santi, ci siamo anche noi, con le nostre fragilità e debolezze. Come chiamò loro, Dio chiama anche noi, perché ci ama. E, nelle notti della vita, a noi come a loro dice: «Non temete» (Lc 2,10). Coraggio, non smarrire la fiducia, non perdere la speranza, non pensare che amare sia tempo perso! Stanotte l’amore ha vinto il timore, una speranza nuova è apparsa, la luce gentile di Dio ha vinto le tenebre dell’arroganza umana. Umanità, Dio ti ama e per te si è fatto uomo, non sei più sola!
Cari fratelli e sorelle, che cosa fare di fronte a questa grazia? Una cosa sola: accogliere il dono. Prima di andare in cerca di Dio, lasciamoci cercare da Lui. Non partiamo dalle nostre capacità, ma dalla sua grazia, perché è Lui, Gesù, il Salvatore. Posiamo lo sguardo sul Bambino e lasciamoci avvolgere dalla sua tenerezza. Non avremo più scuse per non lasciarci amare da Lui: quello che nella vita va storto, quello che nella Chiesa non funziona, quello che nel mondo non va non sarà più una giustificazione. Passerà in secondo piano, perché di fronte all’amore folle di Gesù, a un amore tutto mitezza e vicinanza, non ci sono scuse. La questione a Natale è: “Mi lascio amare da Dio? Mi abbandono al suo amore che viene a salvarmi?”.
Un dono così grande merita tanta gratitudine. Accogliere la grazia è saper ringraziare. Ma le nostre vite trascorrono spesso lontane dalla gratitudine. Oggi è il giorno giusto per avvicinarci al tabernacolo, al presepe, alla mangiatoia, per dire grazie. Accogliamo il dono che è Gesù, per poi diventare dono come Gesù. Diventare dono è dare senso alla vita. Ed è il modo migliore per cambiare il mondo: noi cambiamo, la Chiesa cambia, la storia cambia quando cominciamo non a voler cambiare gli altri, ma noi stessi, facendo della nostra vita un dono.
Gesù ce lo mostra stanotte: non ha cambiato la storia forzando qualcuno o a forza di parole, ma col dono della sua vita. Non ha aspettato che diventassimo buoni per amarci, ma si è donato gratuitamente a noi. Anche noi, non aspettiamo che il prossimo diventi bravo per fargli del bene, che la Chiesa sia perfetta per amarla, che gli altri ci considerino per servirli. Cominciamo noi. Questo è accogliere il dono della grazia. E la santità non è altro che custodire questa gratuità.
Una graziosa leggenda narra che, alla nascita di Gesù, i pastori accorrevano alla grotta con vari doni. Ciascuno portava quel che aveva, chi i frutti del proprio lavoro, chi qualcosa di prezioso. Ma, mentre tutti si prodigavano con generosità, c’era un pastore che non aveva nulla. Era poverissimo, non aveva niente da offrire. Mentre tutti gareggiavano nel presentare i loro doni, se ne stava in disparte, con vergogna. A un certo punto San Giuseppe e la Madonna si trovarono in difficoltà a ricevere tutti i doni, soprattutto Maria, che doveva reggere il Bambino. Allora, vedendo quel pastore con le mani vuote, gli chiese di avvicinarsi. E gli mise tra le mani Gesù. Quel pastore, accogliendolo, si rese conto di aver ricevuto quanto non meritava, di avere tra le mani il dono più grande della storia. Guardò le sue mani, quelle mani che gli parevano sempre vuote: erano diventate la culla di Dio. Si sentì amato e, superando la vergogna, cominciò a mostrare agli altri Gesù, perché non poteva tenere per sé il dono dei doni.
Caro fratello, cara sorella, se le tue mani ti sembrano vuote, se vedi il tuo cuore povero di amore, questa notte è per te. È apparsa la grazia di Dio per risplendere nella tua vita. Accoglila e brillerà in te la luce del Natale.

Omelia Don Carlo 10 gennaio 2020

Omelia 10 gennaio 2020

“Oggi si compie questa scrittura che avete ascoltato”.
Gesù viene a compiere la promessa della scrittura.
Cosa compie? Non compie certo il nostro desiderio, anzi l’incontro con Cristo per me non lo ha compiuto, lo dilata sempre, infinitamente, ogni giorno di più. La felicità cristiana è la felicità della via, mai della meta: la felicità che il cuore desidera.
Il cuore stesso di Gesù non ci sta in questo mondo. Avete presente l’abbracciatona della Maddalena che le deve dire: “Non mi trattenere, non sono ancora giunto al Padre”?
E Giovanni, che era presente, dice nella sua lettera al capitolo quarto: “Noi siamo già figli, ne abbiamo coscienza e siamo certi, ma non è ancora svelato quel che saremo”.
E Paolo, sempre quando parla dell’amore – è legato all’amore – prima (lettera ai) Corinzi, (capitolo) tredici, dice: “Noi adesso conosciamo per speculum et in aenigmate”: vediamo come nel baluginio dello specchio; gli specchi da loro non erano luminosi, ma erano dei metalli levigati che si vedeva un po’ così. “Et in aenigmate “: come in un rebus.
E lui stesso nella Lettera ai Romani aveva detto, al capitolo otto: “Ogni creatura geme e soffre del travaglio del parto”.
C’è una trepidazione dolorosa, il parto non è doloroso solo per la madre, ma anche per il feto…io me lo sono sempre immaginato e ho l’angoscia.

La vita sulla terra è nelle doglie del parto.
Il compimento cristiano è che il cristiano è certo della via, ma non è mai giunto alla meta.
E’ insopportabile la rozzezza dei millennarismi cristiani, cioè quelli che son sempre comparsi a dire: “bastano circa mille anni e si riesce a fare di nuovo il Paradiso in terra”. E’ terribile! Sono concezioni di una violenza tagliente perché fan fuori tutta la sensibilità e il dolore dell’uomo, il dolore del mondo.
San Paolo ribatte : “Io piango con chi piange e rido con chi ride perché mi sono fatto tutto a tutti con la speranza di conquistarli a Lui”.
In Palestina mi è stato evidente che Cristo lì è risorto, ma ha camminato per quaranta giorni sempre con ancora le piaghe aperte. Cristo Risorto ha
delle piaghe vittoriose e contemporaneamente dolorose.
Vedete come è umana e realista la fede cristiana e la gioia cristiana?!
Abbraccia veramente tutto!

Omelia Don Carlo 8 gennaio 2020

Omelia 08 gennaio 2020

“Dio è amore”, annuncia Giovanni dopo i tre anni vissuti con Gesù, dopo la Pentecoste, dopo l’esplosione umana di bellezza e di grandezza che ha visto in tutta l’Asia minore prima della persecuzione di Domiziano.

“Dio è amore”, ma detto nel cuore del Medioriente dove tutti credono in Dio, ma in un Dio onnipotente, un Dio che è potere e il rapporto con Dio in Medioriente – cioè la fede – è un rapporto di potere. Dio ha tutto il potere e tu non ne devi averne nessuno, tu devi obbedire alla Sua legge. Per te non c’è libertà, non c’è ragione, non c’è bellezza.

La fede sulla vita è una violenza – non armata necessariamente – ma è una violenza che ti aggiunge sempre qualcosa a quel che sei e ti toglie sempre qualcosa della tua umanità. Nessuno e niente è più autentico, è più se stesso, è più come Dio l’ha fatto. È tutto artificioso: dai cibi speziati, ai vestiti, alle lingue… e tutto è così, tutto ferisce.

Giovanni dice: “No! Dio non è violento sulla vita, Dio è amore, Dio è uno che ti abbraccia”.

Ogni rapporto con la realtà, a cominciare dal rapporto con te stesso, è un rapporto di amore. Non è un Signore che impone. Dio non è onnipotente, è “onni-innamorato”, è un innamorato che ha come unico rapporto con te quello di un vero innamorato: il corteggiamento.

Dio ti vuole bello, ti vuole fiorito, ti vuole realizzato, è interessato solo ad un amore libero con te. Ti rende capace di abbracciare e di amare tutto ciò che incontri. Questo Dio è inimmaginabile, non solo in Medioriente, in tutto il mondo, non c’è nella cultura del mondo da prima di Cristo e dopo Cristo qualcuno che ha pensato, lo ha cercato e se lo sia immaginato così.

È per questo, conclude Giovanni, che Dio, che l’amore non è che noi abbiamo pensato immaginato Dio è Lui che ha amato noi e ha mandato suo figlio dal cielo.

Quando nella nostra vita non vediamo più l’amore, vediamo che viene meno l’amore, il nostro rapporto con la realtà, la vita diventa un inferno, è perché noi non guardiamo più questo amore sceso dal cielo, questo Dio che ha fatto “outing”, che ha detto chi è Lui, guardiamo altrove. Ma quando anche solo per un istante, lo vediamo su quella collina, come lo videro quei cinquemila affamati ed estenuati, che cosa fanno? Si portano a casa via dodici ceste con gli avanzi dei pani e quel che è rimasto dei pesci. Portano via le briciole del miracolo, un Dio così non se lo possono più perdere, anche se magari lo fanno in un modo isterico, dissennato. Come abbiamo visto un giorno (nell’ultimo pellegrinaggio, ndr)una ressa da stadio attorno al sepolcro di Cristo, fuori pioveva, e eran tutti dentro lì, si è dovuto fare a sgomitate per salvarsi, per salvare le costole… Una verità isterica, che va lì e vorrebbe portarsi a casa le briciole del granito del marmo: è un modo isterico, stupido e istintivo, però è gente che lì sente che è entrato nel mondo un Dio che l’unico adeguato a quello che il nostro cuore brama: il nostro cuore è fatto per amore, per essere amore e basta.

Omelia Don Carlo 25 dicembre 2019

Omelia 25 dicembre 2019

“Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”.

“Si è fatto carne”: cosa vuol dire? Cosa è la carne?
Dice un salmo, il 99: “Ogni carne è come l’erba, come il fiore del campo: fiorisce al mattino, appassisce alla sera”.
“B’esàr” è la piantina, il fiorellino del deserto – in portoghese si dice alecrim- il fiorellino del deserto che appena, appena spuntato che cos’è? È precario, finisce, entro sera non c’è più.
Ecco che cos’è la nostra umanità per Dio: è come un fiorellino nato nel deserto, amabile, godibile per un giorno, fragile, precario, effimero. La carne, anche la carne commestibile, nel deserto è rara, è praticamente introvabile; è la cosa più preziosa se trovi qualche animale da mangiare,
ma non è conservabile, non c’è il frigo, non si può salare.
Ecco, che cosa è la nostra “b’esàr”, la nostra carne umana, che fiorellino siamo noi agli occhi di Dio.

È questo sguardo di tenerezza che muove Dio a farsi carne per venire ad abitare in mezzo a noi, per stare con noi. Quando Dio ha vissuto questo “b’esàr” non c’ha visto più, s’è immedesimato in questo fiorellino, ha detto: “Che bello essere questo fiorellino!”.
Dio si è fatto carne per invidia della nostra bellezza effimera, per venire a vivere almeno un giorno da uomo, a vedere come si vive, in questo deserto, come un fiorellino.
Questo è l’unico sguardo vero su me stesso, perché io posso star bene con me stesso. Se io non mi guardo così non sto più bene, ho gli incubi anche di giorno. Non mi sopporto più e non sopporto più niente e nessuno e il mondo diventa inabitabile. Non sto bene da nessuna parte, sono sempre a disagio e faccio la fortuna degli psicologi.

ἐσκήνωσεν (eskenosen): è venuto per abitarci perché, da quando Dio ci ha abitato, io ho scoperto che il mondo è abitabile, il punto più estremo, più angosciante, nel deserto è abitabile, se io mi guardo così.
Dove lo trovo io questo sguardo che mi fa abitare in pace, godere di me stesso in qualunque angolo del deserto nel mondo?
Dove lo trovo al mattino questo sguardo che ha mosso Dio a farsi carne? In chi?
Io faccio tutto per trovare questo sguardo, ma non tutti i giorni, dove vivo, lo trovo. Tanta gente – la maggior parte – non ha questo sguardo. Non sempre lo trovo, ma io, finora, tutti i giorni sono stato trovato da questo sguardo.