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Omelia Don Carlo 4 novembre 2019
Omelia 4 novembre 2019
“I doni e le promesse di Dio sono irrevocabili”: l’attacco di questa lettura ai Romani.
Fu il pensiero che mosse i santi Vitale e Agricola – che oggi festeggiamo come protomartiri della Chiesa di Bologna – a rispondere ai persecutori.
I doni e le promesse di Dio sono per sempre: se ho speso la vita, figurati se le butto via adesso. E furono martirizzati.
I protomartiri sono i primi, non gli unici martiri. I primi di una fila. Perché “martire” nella concezione della Chiesa primitiva – ma della chiesa cosciente – sono tutti i cristiani.
Mάρτυς in greco è il testimone, il teste del tribunale: non è un uomo bravo o capace, è l’uomo che ha conoscenza dei fatti; quello che rende un uomo martire, cioè testimone, è la conoscenza che lui ha.
Nella fede più che conoscenza, è coscienza. Un martire è un povero che ha la morale e le capacità che ha, ma è un uomo che ha una fede cosciente: non è appena uno che sa chi è Gesù, ma che ha coscienza di chi è Gesù per la vita.
La coscienza è una conoscenza che ti cambia la faccia. Ecco, la fede del martire è una fede che tu gliela vedi in faccia, è uno che coglie la portata di ciò che crede. È una fede che in lui ha peso specifico. Pesa, incide, gli lascia il segno e tu glielo vedi. Una fede così…Non è una fede di un giorno che ti ammazza, è la fede di ogni giorno. Perché uno non si improvvisa martire, non si improvvisa cosciente. Non è che c’è la vita da una parte e la morte dall’altra. Un uomo vive e poi muore per la stessa ragione per cui ha vissuto, chissà che cosa cambia!? Se il dono è irrevocabile, lui non torna indietro. Come fa uno a rinnegare ciò che ha vissuto e amato? Uno non può cambiar faccia all’ultimo momento.
Come nasce nella vita la fede cosciente, cioè la fede che ti cambia la faccia?
Come nasce, come cresce? Questa è una domanda che deve intrigare le nostre amicizie.
Omelia Don Carlo 3 novembre 2019
Omelia 03 novembre 2019
“Tu ami tutte le cose esistenti, non provi disgusto per nessuna”, annuncia il Libro della Sapienza.
La consapevolezza della fede ebraica è tutta in questo sguardo totalmente positivo sulla realtà. Paolo la sintetizzerà nella Lettera agli Efesini, capitolo V: “Omnis creatura bona”. Tutto ciò che c‘è è Bene, tutto è per voi.
“Laudato si’ cum tucte le creature” dirà dopo tredici secoli Francesco. La vita ci è data esattamente per conoscere, amare e godere di tutte le creature.
Non ho conosciuto nessuna cultura (così), antica o moderna – in Occidente o in Oriente, a nord o nel sud del mondo – uno sguardo così positivo. Per tutti c‘è sempre il bene e il male, c‘è il sacro e il profano; non il bene e male morale – quello è ovvio che c‘è – ma quello ontologico!
Ci sono degli essere buoni e degli esseri impuri. No! Nelle culture del mondo, tutte, c‘è sempre tanto da condannare e da scartare: c‘è il fedele e l’infedele, l’amico e il nemico. Tu devi sempre scegliere. Il massimo, per la cultura moderna, è la libertà di scelta. Ma scegliere, “eligere” in latino, εκλέγει in greco, vuol dire spizzicare, estrarre un particolare dal mucchio, ma io sono fatto per tutto, non per un particolare. Ogni scelta non è mai un atto di libertà piena, è un atto lacerante che mi disintegra. Scelgo perché devo scegliere, ma se potessi io abbraccerei – come dice il Miguel Mañara nel primo brindisi del primo quadro “le infinite possibilità”.
Se devo scegliere, non sono mai integro, sono sempre diviso dentro, frammentato.
Allora, come posso avere uno sguardo positivo sulle cose, se le cose sono così tutte limitate, imperfette, incompiute, tutte così ferite dal male?
Il nostro corpo, che pure è un progetto fantastico, ha bisogno di tanti medici che lo curino perché è tutto ferito. La natura è tutta così, lo dice anche il Libro della Sapienza, la prima frase della Lettura di oggi dice: “Tutto il mondo è come un granello di polvere sulla bilancia, una stilla di rugiada”.
Quanto pesa un granello di polvere? Quanto pesa una goccia di rugiada? Una lacrima di rugiada quanto pesa? Quanto pesano le cose se le metto su un piatto della bilancia e nel contrappeso ci metto lo sconfinato peso del desiderio del mio cuore? Volan via tutte, volano via, non hanno peso! Mi deludono, non reggono il peso del mio desiderio. Perché nessuna cosa è amabile e godibile in se stessa, perché non corrisponde, non pesa quanto il cuore!
Quello che è amabile non sono le cose, ma i segni che le cose sono, il segno che la cosa porta in sé. Ogni cosa è amabile non in sé come “cosa”, ma come segno del Creatore delle cose, perché mi parla di Lui: allora sì che è amabile e godibile!
Come intuì Zaccheo tra le foglie del sicomoro, a Gerico e poi, dopo, a casa.
Lo deve esplicitare nel brindisi:
“Oggi in questa casa, per questa casa è venuta la Salvezza”: dice Gesù a Zaccheo, perché quel giorno, nello sguardo di Gesù, le cose che aveva sempre considerato come prede da possedere, da rubare anche agli altri – nello sguardo di Gesù, dal sicomoro fino al brindisi – non eran più cose ma erano segno del Creatore delle cose. E ne poteva dare metà ai poveri e andare a restituirle, non erano più un possesso, una preda, ἁρπαγμὸν (harpagmon). Dice Paolo ai Filippesi 2,6: “Gesù non considerò la Sua onnipotenza come un possesso geloso” – ἁρπαγμός (harpagmos) – “ma se ne svuotò”: Lui, che era ricco, si fece povero e le donò tutte a noi!
Questo a me accade quando intercetto, tra le fronde del mio sicomoro, lo sguardo di Gesù che mi chiama perché mi serve ogni giorno un sicomoro su cui arrampicarmi, un punto che mi esponga al Suo sguardo, che Lui mi possa intercettare, mi possa dire: “Scendi subito!”. Il sicomoro, il punto di esposizione, è quello che permette a Lui di incontrarci, di trasfigurarci lo sguardo. Ognuno di noi sa dove si va a nascondere con le foglie di fico come Adamo ed Eva e dove, invece, può esporsi allo sguardo di Gesù che trasfigura in un istante il mondo agli occhi del “mafioso” Zaccheo.
Cosa sarà accaduto dopo a Zaccheo? La Bibbia non dice nulla; poteva essere tornato a fare il “Totò Riina” come prima, ma in quell’istante vide il Vero e a quell’istante sarebbe potuto ritornare fino all’ultimo istante della vita. Una volta che l’hai visto, sai dove e come lo puoi rivedere.
Omelia Don Carlo 1 novembre 2019
Omelia 01 novembre 2019
“Beati i poveri, beati i miti, beati… beati…”
Gli uomini veri agli occhi di Gesù, quelli che più ammira, sono gli uomini beati, felici! La Chiesa non proclama uno santo prima di averlo proclamato beato. Uno può esser bravo fin che vuole moralmente, ma non può esser triste. Uno triste la Chiesa mai lo proclamerà santo. La stoffa della santità cristiana, prima che etica, è estetica. Cioè il santo prima che cose buone, deve fare delle cose belle, deve riecheggiare quello che vibrava nel cuore di quelle folle su quel monte di fronte al lago, il monte delle beatitudini.
Il santo cristiano è un uomo che vive di bellezza e anche il bene che lui fa vien dal bello, è figlio del bello, non di una legge, non di un dovere.
È bene ciò che è bello. È bene quello che ti fa godere pienamente, questa è l’etica cristiana. San Tommaso chiama eudemonistica un’etica che viene dalla felicità, non dalla legalità o dalla moralità.
Per questo la santità cristiana è una sfida per tutti. Non sfida gli uomini bravi, pii, religiosi… sfida l’uomo che vuol essere uomo, che vuole godere la vita.
E cos’è che rende l’uomo “uomo”? Cos’è che rende l’uomo felice?
Questa è la grande domanda a cui ogni uomo non “deve rispondere”, cui risponde comunque – anche se non ci pensa – da quando si sveglia al mattino fino a sera, per tutta la vita l’uomo risponde a questa domanda.
E si butta su ciò da cui si aspetta di essere felice.
Chi ha sfidato il mondo più radicalmente degli Ebrei e dando una risposta precisa? הַקֳּדָשִׁים (Qodesh) vuol dire toccato da Dio, segnato da Dio, dedicato a Dio. Per gli Ebrei, l’uomo si realizza se è toccato da Dio, se è segnato da Dio e se dedica la vita a Dio, è in rapporto con Dio, con il קֹדֶשׁ הַקֳּדָשִׁים (Qodesh ha-Qodashim), con il Santo dei Santi che rende l’uomo vero.
Tu vedi vivere quell’uomo e sei costretto a pensare a Dio, questo dice la fede ebraica. Perché quell’uomo stesso si pensa così, ha questa coscienza in sé, dice “io” e si sente di Dio, per Dio. È il contrario della coscienza dell’uomo moderno. La cultura di oggi dice che invece Dio è nemico della felicità dell’uomo.
Come dissi anch’io, a sedici anni, tra i quindici e i sedici anni e mezzo: apersi gli occhi, cominciai a guardare criticamente la proposta ricevuta da piccolo, in famiglia, nella Chiesa, nelle parrocchie che conoscevo e dissi: “questa è una fede bigotta e moralista, non è umana, non è per me. Io non la posso seguire.” E cominciai a criticarla, inesorabilmente, sempre più potentemente, perché vedevo quello e solo quello. E trovai come amici in questa critica i grandi del moderno: io sono nato discepolo di Marx, di Freud, di Nietzsche, i grandi moderni che dicevano che la fede – il primo fu Marx – è una alienazione religiosa, la droga, l’oppio dei popoli. E quella che vedevo io era così, addormentava la gente, uno doveva spegnere il proprio io per credere. Io pensavo che fosse quella la fede, non sapevo che era la patologia della fede. Non avevo ancora visto la fisiologia, la bellezza dell’uomo di fede. L’avrei vista dopo otto anni e mezzo di amarezza, di cattiveria, di veleno perché tu devi buttar via ciò in cui sei nato, se vuoi essere te stesso. Era lacerante criticare la mia origine, la mia storia, la mia tradizione compresa la mia famiglia. Allora pensavo che fosse quella e non ebbi dubbi, non potevo, non potevo rinunciare ad essere me stesso. E se è il prezzo era quello, si va anche dal chirurgo, che ti taglia un pezzo per salvar la pelle.
Quella era soltanto una patologia della fede, non avevo visto uomini di fede belli, realizzati, beati. Le beatitudini me le presentavano come parte della legge morale cristiana. Come se uno dovesse piangere, dovesse essere scomodo, dovesse soffrire per essere beato dopo. Invece, lo studiai dopo, nel vangelo di Matteo e anche di Luca, le beatitudini non fanno parte della legge, ma fanno parte dell’annuncio! Sono l’annuncio che la beatitudine esiste, anche per quelli, anche per quelli, per tutti…
Questo dice la cultura di oggi, questo pensa la maggior parte della gente di oggi. Il mondo moderno pensa questo. E non vedendo da nessun’altra parte la beatitudine, è nichilista. Perché se rifiuti questo cosa c’è? C’era il benessere, il wellness materiale, ma quello delude, deprime. E allora cosa resta?
E la tua esperienza cosa dice?
Che bellezza porta la fede cristiana, Cristo, dentro la tua vita?
Che sfida rappresenta per gli uomini che ti vedono ogni giorno, quello che vibra dentro di te?
Che bellezza porta Dio dentro la vita?
È interessante se, nel dialogo tra noi, ci si dice ciò per cui spendiamo la vita, cioè ci aiutiamo guardandoci negli occhi, ad essere rigorosamente ragionevoli e umani. Solo così saremo il sale della terra, saremo il punto di verifica che non dà tregua a nessun uomo che incontriamo. Perché uno può non credere in Dio, uno non può più vivere se non crede nella propria realizzazione umana, se non la vede possibile!
Omelia Don Carlo 23 ottobre 2019
Omelia 23 ottobre 2019
“A chi fu dato molto sarà richiesto molto di più.”
Questa non è la pretesa di un padrone esigente sui suoi schiavi, è la stima sconfinata che Dio ha per me. Perché io per Lui non sono solo un bisognoso, definito dal mio bisogno, uno che deve solo ricevere e basta. Io ho tanto da dare agli occhi Suoi. Come suggerisce questa parabola molto imprenditoriale dal Vangelo di Luca. Ai Suoi occhi io sono – dice – l’amministratore fidato, saggio, messo a capo della servitù. È l’AD, il general manager! Sono pieno di risorse e di capacità ai Suoi occhi, mi tratta come un imprenditore che vale. Dio mi guarda così e mi vuole imprenditore di me stesso. L’opera più grande che devo fare non è cambiare il mondo e la società, ma è cambiar me stesso, tirar fuori la grandezza gigante ché io sono immagine Sua, che è Padre di tutti e Creatore dell’universo. Io devo tirare fuori la capacità di generare e di creare che ha Dio stesso. Se io mi sento niente è perché mi guardo con il mio sguardo, con lo sguardo del mondo.
Dove l’ha trovato Paolo questo sguardo, questa immagine così moderna, stimolante e potente?
Dice ai Romani: “Noi aderiamo con il cuore a quella forma di insegnamento a cui siamo stati consegnati”.
Un’immagine precisa, potente, efficace dell’esperienza cristiana.
Aderire con il cuore a quella forma di insegnamento a cui siamo stati consegnati. L’insegnamento arriva in una forma precisa, quello che ti salva – la differenza tra il fatto che diventi imprenditore o che divento uno schiavo, una massa senza volto – è se aderisci con il cuore o a malincuore. Perché fare le cose a malincuore, con il muso, come se fossero sempre un di meno, rimpiangendo una forma ideale che abbiamo in testa noi, ci ammazza, distrugge la nostra grandezza. Dio mi pensa, mi ha fatto e mi vuole imprenditore di me stesso, tanto mi stima. E non è mai nella vita la Sua stima che può mancare; mi ha fatto, mi ha fatto incontrare Gesù che cosa voglio di più? Quello che può mancare, che può impedire la mia fioritura umana è la mia stima su di me.
Ma chi nel mondo ti guarda con questo tipo di sguardo? Me lo dite chi? Ma neanche l’innamorato più innamorato, neanche i genitori i loro figli, che sono tutti lì che hanno paura che arrivino a tredici anni che scappino via.
Omelia Don Carlo 22 ottobre 2019
Omelia 22 ottobre 2019
“Sacrifici, offerte e olocausti tu non gradisci”.
A Te non piace chi si sacrifica, ma chi si realizza. Tu non chiedi di sacrificare le cose, ma di goderne: son Tue creature, sono i segni preziosi di Te. Questo è Dio. E un Dio così ti prende il cuore e ti fa gridare come a questo salmista (questi due potenti salmi 39 e 42 sono paralleli, hanno lo stesso tema, la condanna dei sacrifici): ma allora io vengo a far la Tua volontà se Tu sei questo, io Ti devo dar tutta la vita, Tu sei l’unico Dio che la merita tutta, perché Tu mi dai tutto e non mi togli nulla.
Immaginate il volto di un uomo che crede in un Dio così. Lo dice ancora questo Salmo: “Io non tengo chiuse le labbra, Signore, Tu lo sai”, non ci riesco, sono irrefrenabile, non mi frena nessuno. Devo gridare quello che ho dentro il cuore, come Tu fai fiorire la mia umanità.
Ma allora dove è nato quel Dio triste e bigotto, rinunciatario che mi fu proposto a 15 anni? Quando mi dissero – avevo detto che ero disposto a dare la vita a Cristo anche vivendo la verginità nel sacerdozio, perché volevo diventare un uomo realizzato – mi disse il rettore del seminario: hai sbagliato tutto, se ti vuoi realizzare non devi fare il prete, il prete è il ministro del crocifisso e sacrifica la vita per Dio e per gli uomini.
Avrai la vita piena di sacrifici, se ti vuoi realizzare devi fare un’altra cosa, devi fare l’imprenditore, devi fare carriera, devi fare altro.
E dopo qualche mese ho cominciato a criticare questo Dio inesorabilmente fino a quando avrei lasciato tutto se non avessi incontrato quello vero, quello che ha incontrato questo salmista. Ma chi ha inventato questo Dio triste, nemico dell’umano che riempie la vita di rinunce.
Ma perché, dove nasce nella tua vita la paura della bellezza?
Come dice Reiner Maria Rilke “Ein jeder Engel ist schrecklich”: ogni angelo, ogni bellezza è tremenda. Perché la bellezza, se la vedi, è totalizzante, ti toglie l’indipendenza. Noi abbiamo più paura della bellezza che dei sacrifici.