Archive
Omelia Don Carlo 7 febbraio 2020
Omelia 07 febbraio 2020
“Beati coloro che custodiscono il vero in un cuore integro”.
Non c’è “integro” – in italiano integro vuol dire “moralmente integro”: uno coerente, incorruttibile che non prende le bustarelle – qui c’è καρδίᾳ καλῇ (kardía kalé): un cuore bello, chi ha il cuore bello, cioè un cuore teso alla bellezza, che vive per la bellezza. Ché la bellezza è il criterio ed è sufficiente.
Per Lui, per un uomo così, una cosa è bene se è bella. Una cosa brutta non può essere buona. Ecco, un cuore così – che vive per la bellezza – è pericoloso, è temibile per chi ha il potere, come abbiamo visto nel martirio di Giovanni Battista.
Chi ha il potere ha paura di un cuore che vive per la bellezza.
Dice che: “La guardia lo decapitò in carcere e portò la testa sul vassoio”.
La testa gliela porta, ma il cuore di Giovanni non sta mica nella testa. Il cuore di Giovanni non glielo prende, non glielo ammazza, come Gesù.
Il cuore di Gesù non è finito sulla croce, il cuore di Giovanni non è finito su quel vassoio, non è rimasto in carcere, è uscito, ha infiammato i suoi discepoli, come dice alla fine. (I suoi discepoli) vanno a prendere il corpo, lo seppelliscono, ma il cuore di Giovanni è il cuore dei discepoli, ha infiammato anche il cuore di Gesù, che lo ammira e dice: “Non è nato nessuno più grande di questo qui”. Il più grande degli uomini è più piccolo di questo qui.
Anche Gesù si è infiammato davanti al cuore di Giovanni. Esattamente come noi questa mattina: siamo ancora qui perché infiammati dal suo cuore.
Giovanni aveva τἡ καλῇ καρδίᾳ (té kalé kardía): un cuore che vive della bellezza.
Quando noi siamo spenti, non siamo più infiammati, diciamo che è tutto brutto, non è che ci manca Cristo, non è che ci manca la bellezza; è che non abbiamo un cuore “integro”, un cuore tutto teso alla bellezza, a quella idea, e
perdiamo la vita – perdiamo il tempo della vita – a lamentarci della bruttezza del mondo.
Omelia Don Carlo 6 febbraio 2020
Omelia 06 febbraio 2020
“Gli apostoli proclamavano che la gente si convertisse”.
Convertirsi a cosa? La conversione cristiana non è conversione ad una morale, neanche conversione a Dio: è una conversione a Gesù, “voltarsi-verso”, guardar Gesù e guardar dove guarda Lui, cercare ciò che cerca Lui.
E Lui per cosa vive? Per cosa è venuto nel mondo? E nel mondo cosa cerca, cosa guarda?
Il Credo che recitiamo alla messa della domenica dice: “Propter nos homines et propter nostram salutem”. Lui vive per noi uomini e per “nostram salutem”: la nostra “salute”, non è salvezza, salute vuol dire salute, non del corpo, ma dell’io. Gesù è venuto nel mondo e vive nel mondo per mettere “in salute” il mio io, il mio cuore, farlo vivere, renderlo cosciente di sé. E Lui il mio cuore lo stima, dice che è fatto sano. Il cervello sì che si può ammalare come tutti gli organi, ma il cervello non è l’io, è il supporto organico! Ma l’io, il cuore, è spirituale, è “immagine di Dio” dice la Bibbia, è partecipe del divino, quello non si ammala mai! Anche le persone più devastate nella testa, hanno sempre un punto di bellezza e di verità, che io riconosco e posso incontrare perché il frutto della conversione è riconoscere il proprio cuore e poterlo riconoscere negli altri. È un potere molto introvabile in giro, il potere di incontrare chiunque, è il potere di far fuori l’estraneità con chiunque, perfino con il nemico.
Se io li sento estranei è perché io sono estraneo a me stesso, ho perso la coscienza di me, è che io non mi sono pienamente convertito, cioè sarò convertito alla morale, convertito a Dio, (ma) non sono veramente convertito a me stesso, che è lo scopo che Cristo ha dentro il mondo.
Omelia Don Carlo 5 febbraio 2020
Omelia 05 febbraio 2020
“Fate il censimento”, dice Davide, “Voglio sapere il numero della popolazione”.
Voglio sapere ciò che è in mio potere, perché io spero tutto dal mio potere. La mia felicità è il mio potere, il mio fare – era un americano totale, il self-made man, you can: tu puoi.
Ma perché questo tentativo così umano, così moderno, così simpatico, perché questo è peccato? Che male fa, a chi fa male questo?
Lo fa a Davide, innanzitutto, perché uno che punta sul suo potere, (su) quello che lui può fare, al massimo può avere delle cose, mai avrà le persone perché l’amore di una persona, il sì di una persona, libero, non lo compri, glielo puoi solo domandare, riceverlo come un dono. L’uomo che si fa da sé si priva della cosa più bella del mondo: di essere amato.
Quando io faccio il “censimento” delle mie cose e punto sul mio potere, poi sono costretto ad accontentarmi di ciò che posso, di ciò che ho e non domando più, al massimo pretendo e mi perdo – appunto – la gioia più bella. Perché il censimento, inesorabilmente, ti fa abbassare il tiro, ti fa abbassare l’asticella del desiderio a quel che puoi tu, perdi l’audacia (del desiderio). Infatti, Davide dirà: “Che stoltezza ho commesso! Sono stato stupido, non ho sbagliato l’obiettivo, ho sbagliato la strada perché adesso devo reprimere il cuore!”. Vivo senza respiro se punto solo su ciò che ho in mano io.
Il censimento di Davide è una tentazione di tutti – è inevitabile! Ci caschiamo sempre, ma non è irrimediabile e non è neanche la cosa più grave – dice Davide: “Ho fatto una stoltezza!” – perché il censimento non è irredemibile, non lo definisce: ordina il censimento al mattino per l’idea pazza che gli è venuta, ma, prima di sera, ha già chiesto perdono. Sceglie la sua pena e si affida di nuovo alla promessa di Dio e non alla felicità che viene dal suo potere. Riprenderà il cammino, e diventerà il Santo Re Davide. Santo per gli ebrei e santo per i cristiani. Così santo che da 29 secoli – 2.900 anni – ebrei e cristiani, tutti i giorni, pregano con i Salmi composti, per i due terzi, da Davide. Davide era questo. E il Santo Re Davide fa capire, a ebrei e cristiani, che da un gran peccatore si può sempre ricavar un gran santo, ma – come dice Dante – da un ignavo, da un meschino, da quello che punta in basso (no)!
Dice Dante, nel terzo canto dell’Inferno: “La lor cieca vita è tanto bassa, che ‘nvidïosi son d’ogne altra sorte”. Da uno che è così meschino non ci si cava niente e dirà, appunto, Dante che gli ignavi, quelli che di partenza puntano in basso, non li vuol nessuno. “A Dio spiacenti e a’ nemici sui”: fanno schifo anche al diavolo.
Omelia Don Carlo 4 febbraio 2020
Omelia 04 febbraio 2020
“Chi ha toccato le mie vesti?”
Non ha sbagliato a toccar le vesti, perché la fede cristiana implica il touch perché non è credere che Dio esiste, ma che Dio è presente dentro un segno: una cosa che vedi e che tocchi, ma è più grande di ciò che vedi e di ciò che tocchi.
“Quella donna ha fatto bene a toccarmi” – dice Gesù – “ma Voglio sapere chi è, voglio vederla, sapere cosa pensa, cosa vuole. Voglio che conosca Colui che ha toccato di ciò che ha toccato, del mantello. Voglio che non si fermi al mantello, (voglio) che incontri Chi c’è dentro, che incontri Me e scopra che novità Io porto dentro il mondo.
Una delle pene più acute che mi fa piangere in questo periodo son tutti i cristiani che ho incontrato in giro per il mondo e tutti i giorni inconsapevoli della grandezza e della novità di Cristo.
Lo riducono al “mantello”, esattamente: quel segno svolazzante che han visto, han toccato per un attimo. Si sono accontentati della polvere del mantello.
Perdono l’immensa novità e grandezza che lì c’è dentro; perdono il divino che c’è dentro al mantello – anzi il “divino” a loro sembra astratto, è una parola che non dice loro nulla, li delude.
Infatti, sono delusi e tristi. Se ne vanno dalla Chiesa, tanti, delusi e tristi, lamentosi, amari, oppure – peggio! – restano nella Chiesa, ma ugualmente delusi, amari.
Tu li guardi, provi a parlarci e devi fare lo zapping, devi “cambiar canale”, cioè non c’è niente, non hanno nessun appiglio.
A questa gente delusa e triste, che se ne va o che resta, non è mancato Cristo, non è Lui che è mancato; sono loro che non hanno “bucato” il mantello di Cristo, cioè Cristo non li ha riempiti di stupore come conclude il Vangelo: ha riempito di stupore Giairo e i suoi familiari davanti alla bambina rediviva.
Per cambiar faccia bisogna che noi sappiamo dove, quando e come si squarcia il mantello di Gesù ai nostri occhi.
Omelia Don Carlo 3 febbraio 2020
Omelia 03 febbraio 2020
L’indemoniato guarito “lo supplicava di restar con Lui”.
Gli sembra il massimo star sempre con Gesù. Cosa c’è di più bello, di più desiderabile?
E, invece, no. Gesù lo spiazza, lo sconcerta.
“Non glielo permise” di star con lui perché glielo vede in faccia che “stare” come diceva lui era: “Sto qui, sto tranquillo, non devo fare nient’altro che stare”, ma “stare” è un verbo che suggerisce inerzia, è l’assenza di forza – un campo statico; indica passività, disimpegno, delega a qualcun altro, delega a Gesù, no!
Io ti voglio protagonista della tua realizzazione umana. Le cose le fa Dio e son fatte così, han le loro leggi fisiche. Gli uomini si devono “far da sè”, Dio ci mette il lievito iniziale, poi tu ti devi “auto-creare”: devi decidere che cosa di grande vuoi diventare nel mondo. Dio sta a vedere che spettacolo viene fuori o come ti perdi.
“Io non voglio gente che “sta” con Me” – dice Gesù – “ma gente che “imita” Me, fa quel che faccio Io! Io non sono stato con Dio, son venuto giù dentro il mondo, dentro la bagarre con voi, (son venuto) a svolgere il mio compito di uomo dentro il mondo. Tu, adesso, devi svolgere il tuo!”.
Qual è il compito di quell’indemoniato guarito?
Gesù è chiarissimo: “Va’ dai tuoi, annuncia ciò che il Signore ti ha fatto”. Il nostro compito è questo: non è stare sempre con Gesù, ma annunciare nel tempo, dentro il mondo ciò che Dio fa per noi, come sta cambiando la nostra vita, come mi sta realizzando. E questo compito io non lo realizzo “stando” sempre con Gesù a parte, sempre “rintanato” dentro la sua comunità, ma fuori (!), come dice audacemente questo Papa che spiazza tutti: “Voglio una chiesa in uscita”. Fuori, fuori! Dentro le periferie esistenziali.
Quando noi ci sentiamo infelici, non realizzati, diciamo: “devo pregare di più, devo star di più con Gesù”. È il contrario: ci devi star di meno! È come uno che se sta sempre a tavola, poi gli viene lo schifo del cibo, non ne capisce più la bellezza. Per capire il cibo, che Gesù è il pane della vita, bisogna lasciare la tavola e andare a lavorare e faticare, a provar la fame, a star con chi Gesù non Lo conosce.
Negli ultimi dieci, dodici anni della mia vita l’entusiasmo più grande che mi è venuto per Gesù è proprio per questo. Quando ho cominciato ad intercettare e a condividere le ferite di tanti, mi si è capovolto quel che mi avevano insegnato sul rapporto tra educazione e missione. Mi avevan detto: “Prima ti devi educare, educare la gente, dopodiché, poi – quando saranno pronti e adeguati – andranno in missione. Io ho scoperto esattamente che è vero il contrario.
Il miglior modo per educarsi è andar subito in missione, buttarsi dentro la bagarre: è lì che capisci, con chi riconosce Cristo, che cos’è veramente Cristo.
Lo capisci, come in un teorema per assurdo, che non si può vivere così. Poi si incontrano tante di quelle anime ferite che non staranno mai dentro gli standard comunitari che abbiamo in testa noi: gente a cui puoi far solo compagnia là dentro il loro dramma o sulla loro croce.